Fondo aziendale: rimborso solo se l’investimento è accertato

I giudici di legittimità confermano il provvedimento adottato dall’Amministrazione finanziaria facendo il punto sulla documentazione idonea a certificare il diritto alla restituzione delle ritenute

La Cassazione, con l’ordinanza n. 30696 del 3 novembre 2023, consolida ulteriormente l’orientamento di legittimità, che nega agli ex dirigenti di un’azienda la spettanza del rimborso delle ritenute subite sulle prestazioni erogate dal fondo integrativo, se basato sulla certificazione dell’azienda e sulla relazione attuariale, in quanto documentazione inidonea a provare l’investimento sul mercato finanziario delle somme accantonate dal Fondo.

La vicenda processuale
Il contenzioso prende avvio con l’impugnazione da parte di un ex dirigente di un’azienda del diniego opposto dall’Agenzia delle entrate all’istanza di rimborso dell’imposta versata in eccesso (rispetto l’aliquota del 12,5%) in occasione della liquidazione del capitale maturato nel Fondo.
Avverso la decisione della Commissione tributaria regionale che, confermando quella di primo grado, aveva accolto l’istanza del contribuente, l’Agenzia delle entrate proponeva ricorso alla Corte suprema la quale, con ordinanza n. 8923/2014, cassava la sentenza di merito rinviando ai giudici l’applicazione concreta del principio di diritto indicato dalle sezioni unite, con sentenza n. 13642/2011, secondo cui vanno assoggettate all’aliquota agevolata unicamente le somme che costituiscono il “rendimento netto” imputabile alla gestione sul mercato da parte del Fondo del capitale accantonato.
Nel giudizio di rinvio, introdotto a seguito di riassunzione della parte, la Commissione tributaria regionale accoglieva l’istanza di rimborso con conseguente ulteriore impugnazione da parte dell’Amministrazione finanziaria la quale contestava ai giudici di merito la mancata applicazione dei principi affermati nella richiamata pronuncia delle sezioni unite.

La pronuncia della Suprema Corte
Chiariscono i giudici di legittimità che, secondo quanto stabilito dalla stessa Corte, i giudici di secondo grado si sarebbero dovuti attenere al principio espresso dalle sezioni unite che prevede (ex articolo 6 della legge n. 482/1985) a coloro che siano iscritti al fondo di previdenza complementare aziendale da epoca antecedente all’entrata in vigore del Dlgs n. 124/1993, l’applicazione dell’aliquota del 12,5% sulla differenza tra l’ammontare del capitale corrisposto e quello dei premi riscossi sulle somme percepite a titolo di liquidazione in capitale del trattamento di previdenza integrativa aziendale “solo limitatamente agli importi maturati entro il 31.12.2000 che provengano dalla liquidazione del rendimento finanziario del capitale”, con l’ulteriore e opportuna precisazione che per “rendimento del capitale” deve intendersi il “rendimento netto imputabile alla gestione sul mercato, da parte del Fondo, del capitale accantonato” (ultima parte del penultimo periodo del paragrafo 6.1 della sentenza a sezioni unite n. 13642/2011).
Al giudice di merito spettava, pertanto, accertare, a fronte di un’adeguata e puntuale analisi giuridica della fattispecie concreta, la “natura e quantità del rendimento che sarebbe stato erogato a favore del contribuente, verificando se vi sia stato (e quale sia stato) l’impiego da parte del Fondo sul mercato del capitale accantonato e quale (e quanto) sia stato il rendimento conseguito in relazione a tale impiego, giustificandosi solo rispetto a quest’ultimo rendimento l’affermata tassazione al 12,5%” (Cassazione, n. 29583/2011).

Precisano ulteriormente i giudici di legittimità che le sezioni unite hanno testualmente chiarito che, solo le somme liquidate a titolo di capitale possono essere tassate in modo analogo al Tfr, mentre alle somme corrispondenti al rendimento di polizza si applica la tassazione nella misura del 12,5% e che il criterio impositivo più favorevole (tassazione al 12,5% ex articolo 6 della legge n. 482/1985) riguarda unicamente “le somme costituenti il rendimento di gestione conseguito dall’effettivo impiego, da parte del Fondo, sul mercato del capitale accantonato, la cui prova grava sul contribuente, quale attore sostanziale del preteso rimborso IRPEF” (cfr anche Cassazione, n. 7223/2020).
Come chiarito nella parte conclusiva della pronuncia in esame, sul significato da attribuire al concetto di “rendimento netto” si è formato un orientamento univoco e consolidato che individua tale nozione “negli importi rivenienti dall’effettivo investimento sul mercato, da parte del fondo, del capitale accantonato”.
Alla luce di tale principio, la Corte suprema cassa (senza rinvio) la sentenza di secondo grado (con conseguente reiezione dell’originaria istanza di rimborso), in quanto i giudici regionali hanno applicato il beneficio richiesto sul rendimento netto basandosi esclusivamente sulla certificazione dell’azienda e sulla relazione attuariale.
Documenti questi ultimi sempre giudicati (in altri giudizi) del tutto inidonei a provare l’investimento sul mercato finanziario.

Relativamente alla certificazione aziendale, in quanto carente della necessaria “specificazione sui criteri utilizzati per la quantificazione della voce rendimento” ovvero non fornendo con la necessaria chiarezza elementi per ritenere se trattasi effettivamente di incremento della quota, attribuita al dipendente in forza di investimenti effettuati dal gestore sul mercato.
Riguardo alla “perizia attuariale”, dovendosi escludere che il rendimento imputabile alla gestione sul mercato del capitale accantonato, possa considerarsi corrispondente alla redditività sul mercato dell’intero patrimonio della società (ex plurimis Cassazione, n. 4943/2018 e n. 7728/2019).

Peraltro, non mancano di osservare i giudici di legittimità che, nel caso al loro esame, riguardante pacificamente capitali rinvenienti dall’accantonamento nel Fondo PIA, non risulta applicabile in concreto il regime fiscale dettato dall’articolo 6 della legge n. 482/1985.

Fonte: Fisco Oggi

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